Gallino era invitato all'8° Congresso nazionale di MD a Firenze, dal 19 al 21 novembre, come già a quello di Milano nel 2012. Purtroppo non ha fatto in tempo, lo ricordiamo con questo articolo.
Dal sito pop off
Luciano Gallino, sociologo combattivo e resistente
09 novembre 2015
Un ricordo di Luciano Gallino, il sociologo che ha provato a raccontare a tutti noi la nostra sconfitta politica e sociale
di Diego Giachetti
Neanche la morte che lo ha colto a Torino l’8 novembre all’età di 88 anni, ha trovato il sociologo Luciano Gallino impreparato. Il suo ultimo libro infatti, Il denaro, il debito e la doppia crisi, freschissimo di stampa, può essere – oggi ancor più – letto come un messaggio a coloro che verranno. L’intento è esplicitato fin dall’introduzione. Rivolgendosi ai nipoti afferma:
«Quel che vorrei provare a raccontarvi è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale, morale: che è la mia, ma è anche la vostra. Con la differenza che voi dovreste avere il tempo e le energie per porre rimedio al disastro che sta affondando il nostro paese, insieme con altri paesi di quella che doveva essere l’Unione europea. A ogni sconfitta corrisponde ovviamente la vittoria di qualcun altro. In realtà noi siamo stati battuti due volte. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di pensiero critico. Ad aggravare queste perdite si è aggiunta, come se non bastasse, la vittoria della stupidità». Senza «l’apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott’occhio. Pensate a quanto è successo nell’autunno 2014. All’epoca i disoccupati sono oltre tre milioni. I giovani senza lavoro sfiorano il 45 per cento. La base produttiva ha perso un quarto del suo potenziale. Il Pil ha perso 10-11 punti rispetto all’ultimo anno prima della crisi. E che fa il governo? Si sbraccia allo scopo di introdurre nella legislazione sul lavoro nuove norme che facilitino il licenziamento. Come non concludere che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità? (o forse di malafede)».
Per l’affermazione della sociologia nel nostro paese
Luciano Gallino ha dato un contributo fondamentale all’affermazione della sociologia come disciplina e alla sua istituzionalizzazione nel secondo dopoguerra, operando dentro e fuori il mondo accademico sui temi del lavoro, dei processi economici, del rapporto tra tecnologia, formazione e mercato del lavoro e, più in generale, sulle questioni della teoria sociale. Un’affermazione, quella della sociologia, non facile, inizialmente, in un ambiente culturale improntato dallo storicismo crociano e dalla diffidenza idealistica gentiliana verso la ricerca sociale considerata deviazione neopositivista e empirista. In questo ambito citiamo solo due, tra le tante opere sue: il Dizionario di sociologia, pubblicato nel 1978 e successivamente aggiornato e La società. Perché cambia, come funziona del 1980. Parallelamente, unitamente all’insegnamento universitario, cui si dedicò fino al 2002, egli fu presidente del Consiglio Italiano delle Scienze Sociali, dal 1979 al 1988, e dell’Associazione Italiana di Sociologia, dal 1987 al 1992, nonché socio dell’Accademia delle Scienze di Torino, dell’Accademia Europea e dell’Accademia Nazionale dei Lincei e direttore della rivista «Quaderni di Sociologia». La sua carriera però era iniziata altrove, presso l’industria Olivetti di Ivrea, chiamato a lavorare all’Ufficio studi relazioni sociali dell’azienda, il primo del genere creato in Italia, da Adriano Olivetti nel 1956. Questa esperienza segnò profondamente la sua formazione, come lui stesso riconobbe più volte e nel libro pubblicato nel 2001, L’impresa responsabile. Titolo scelto non a caso ma a sottolineare il valore di quell’esperimento nel campo del lavoro, oggi completamente annullato dal prevalere de L’impresa irresponsabile (titolo di un suo libro del 2005), tipica del nostro tempo, segnato dall’affermazione del neoliberismo. Un’impresa, scrisse, tutta concentrata esclusivamente sulla creazione del plusvalore per gli azionisti, che non teneva più conto della produzione di beni. Un’impresa legata alla finanziarizzazione del processo economico e che si era emancipata dall’obbligo di rispondere a qualche autorità pubblica e privata o all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze della sua attività in campo economico, sociale e ambientale.
Sul finire degli anni Ottanta Gallino apre a studi e analisi sui processi industriali in corso e le sue ricadute sul mondo del lavoro e nella società in Italia: Sociologia dell’economia e del lavoro. Tecnologia, organizzazioni complesse e classi sociali(1989), Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione (1998), Globalizzazione e disuguaglianze (2000), Il costo umano della flessibilità (2001), La scomparsa dell’Italia industriale (2003), Italia in frantumi (2006), Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità (2007). Il tema comune di queste ricerche è quello di descrivere le conseguenze sulla società delle politiche di liberalizzazioni dei mercato e dei servizi pubblici. Al di là delle parole usate: flessibilità, modernizzazione dell’industria e della scuola, riforma della tassazione e pensioni, globalizzazione, quel processo conduceva alla precarietà, pertanto occorreva denunciare Lo scandalo del lavoro precario, come fece fin dal titolo del libro edito nel 2014.
Un accademico combattivo
A chi gli chiedeva come mai piacesse così tanto ai pochi che si consideravano ancora legati alla sinistra, rispondeva: «Io sono sempre lo stesso, è il mondo che è cambiato e mi sta dando ragione». Non si trattava di essere caratterialmente ottimista o pessimista, come pure si sentiva dire, ma di chiedersi se i dati, i fatti, le circostanze inducevano all’ottimismo o al pessimismo. La sua l’analisi era sempre basata su “fatti”, dati, numeri, perché – era una delle sue battute – dei fatti si può sempre discutere, delle opinioni no. Parlare e scrivere di temi complessi, con chiarezza e senza finalità meramente partitiche o di cordate neoliberiste, è il primo dovere che ha un intellettuale. Dire la verità al fine di rendere consapevoli gli uomini e le donne affinché possano partecipare coscientemente alla vita pubblica e politica. Una verità intesa come ricerca e costruzione, fondata su una procedura rigorosa e sull’accertamento delle ipotesi interpretative, non una verità rivelata alle masse, come fanno certi opinionisti televisivi o estensori di editoriali catechizzanti per i giornali “indipendenti” a maggior tiratura. Di qui la sua ribellione al pensiero unico dominante, con un vigore, una lucidità d’analisi e un impeto critico e tagliente che storicamente (un tempo almeno) era tipico dei giovani intellettuali e meno rintracciabile – escluso il nostro – negli studiosi ultrasettantenni.
La crisi che colpisce l’economia americana sul finire del primo decennio del 2000 e che poi si riverbera sui paesi dell’Europa, attira la sua attenzione sui temi del capitalismo globalizzato e sulle ragioni della crisi. «Il tracollo finanziario di questi anni – scriveva nel libro Il colpo di Stato di banche e governi (2014) – non è dovuto a un incidente del sistema: né tantomeno al debito pubblico che gli Stati avrebbero accumulato per sostenere una spesa sociale eccessiva. È il risultato dell’accumulazione finanziaria perseguita ad ogni costo per reagire alla stagnazione economica di fine secolo. È indispensabile riportare la finanza al servizio dell’economia reale, anzitutto creando occupazione: senza lavoro non c’è crescita. Non vale, invece, il contrario». Quest’opera, come la precedente,Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, (2011), affronta anche temi cari alla sociologia politica quali il consenso e la struttura del potere dell’oligarchia dominante. Il neoliberismo stravince e si impone nella battaglia culturale perché ha costruito una sua egemonia. In Europa controlla tutti i governi, qualunque siano i partiti al governo, che fanno parte dell’Unione, imponendo loro le sue ricette di austerità che altro non fanno che peggiorare la crisi. Controlla il 95% della stampa, il 99% delle tv, domina nelle università. Non è facile contrastarli. La sinistra come forza partitica non esiste più e quindi non ha la forza di opporre un ruolo di riflessione o denuncia paragonabile all’attacco vincente dei neoliberisti. E’ la vittoria di un sistema che ha avuto inizio più di trent’anni or sono col processo di liberalizzazioni avviato negli Stati Uniti da Reagan, dalla Thatcher in Gran Bretagna e in Francia ad opera del socialista Mitterand. Questa era la risposta alla crisi che aveva colpito l’economia capitalistica negli anni seguenti la Seconda guerra mondiale. Una risposta sbagliata, secondo il sociologo, che non solo non risolve la crisi, ma la riproduce, al punto che bisogna ormai chiedersi se il capitalismo sia ancora capace di affrontare i suoi disastri. Il processo di involuzione del sistema economico capitalistico appare così profondo che, unendosi alla crisi del sistema ecologico, prodotta e aggravata dal capitalismo stesso, rende difficile una soluzione positiva entro l’attuale formazione economica-sociale. Come evitare la decadenza di civiltà, la stagnazione continua a cui il modo di produzione capitalistico ci condanna? Queste sono domande che si pone, sapendo che le risposte non sono facili e scontate. Non si sottrae però a questo compito, indica in pagine e pagine tutti i provvedimenti che si dovrebbero adottare per evitare la crisi economica permanente, l’accrescersi delle diseguaglianze sociali, la distruzione dello stato sociale, la nuova “servitù” nel mondo del lavoro, il furto di futuro da parte delle banche che indebitano le persone e gli enti pubblici e privati, la crisi del sistema ecologico.
Più facile indicare i provvedimenti necessari, più difficile risulta trovare il soggetto sociale e politico che porti avanti la critica al sistema e il suo scardinamento. Dopo il declino dei soggetti in grado di organizzare le folle, come i partiti tradizionali, o costituenti essi stessi una forma di organizzazione, come il proletariato fordista, un’efficace forma di organizzazione dei movimenti di opposizione in campo politico potrebbe svolgerla soltanto il fatidico “nuovo soggetto” di cui a sinistra si attende l’arrivo da generazioni. Altro non vi è da sperare in quanto «i partiti di massa quali il Pd che si dicevano di sinistra si sono suicidati, e le formazioni restanti non hanno per ora alcuna speranza di superare alle elezioni pochi punti percentuali», scrive nell’ultimo suo libro. Questa nuova sinistra, prosegue, sostenuta dalla classe lavoratrice, dai precari, dalla classe media, dovrebbe prendere il potere; e anche se non riuscisse subito a sostituire il capitalismo, dovrebbe riuscire quantomeno a trasformare i suoi caratteri più deleteri, dando vita magari a un sistema inedito di socialismo democratico o social-ecologico, oppure con un nome decisamente diverso «visto il tradimento dei loro ideali costitutivi compiuto dalle socialdemocrazie europee». Se un’autentica forza di opposizione non si sviluppa, o tarda ancora per decenni, quello che ci attende è un ulteriore degrado dell’economia e del tessuto sociale, seguito da rivolte popolari dagli esiti imprevedibili.
L’ultimo appello
Luciano Gallino non si sottrasse alla contesa teorica e politica. Lo fece riprendendo sia gli autori legati al marxismo, nonché lo stesso Marx e altri classici della sociologia, a cominciare da Max Weber, al fine di dare sostanza alla critica antiliberista. Le classi sociali esistono e se qualcuno vi dice «che le classi non esistono più, o sono un concetto superato, lasciatelo perdere oppure ditegli di leggersi almeno, fra i tanti, Daniel Bensaid, Marx l’intempestivo. Grandezze e miserie di un’avventura critica», precisa in una nota inclusa nel capitolo finale del suo ultimo libro, rimandando ad un suo testo precedente: La lotta di classe dopo la lotta di classe (2012) nel quale aveva scritto: «Oggi le classi dominanti si sono mobilitate e hanno cominciato loro a condurre una lotta di classe dall’alto per recuperare il terreno perduto». I vincitori di oggi sono le oligarchie dominanti di un sistema economico-sociale-finanziario che dobbiamo ancora e più di prima chiamare capitalismo, termine oggi schivato dal fior fiore degli intellettuali e economisti, parlanti dagli schermi televisivi. Usare questa definizione è anche un modo per reagire all’odierna frode che consiste nel designare la medesima formazione sociale come “sistema di mercato” o sinonimi simili, definizioni ideologiche nel senso di falsa coscienza da distribuire ai sottoposti. Così pure, se vi dicono che oggi il potere è così diffuso nei vari strati sociali per cui è incerta la sua definizione, ricordatevi che chi domina ha sempre più potere di chi è dominato.
In una delle sue ultime interviste, comparsa sul «Fatto Quotidiano» del 24 settembre 2015, Gallino definisce la politica economica del governo Renzi diretta discendente del thatcherismo, priva di differenze dai precedenti governi di Monti e dell’epoca berlusconiana: «Le riforme di Renzi si collocano tra il dramma e la barzelletta. Rispetto alle dimensioni del problema, alla gravità della crisi, il Jobs Act non aumenta l’occupazione. Abbiamo perso il 25% della produzione industriale, il 10-11% di Pil, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono penosamente modesti. I giochetti delle riforme sono l’apoteosi preoccupante del fatto che il governo non ha la più pallida idea dei problemi reali del paese; o forse ce l’ha ma procede con la passiva adesione alle politiche di austerità». «Monti arrivò da Bruxelles, grazie all’intervento di Napolitano, per fare il gendarme delle più grandi insensatezze mai immaginate in campo economico: il pareggio obbligatorio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, le riforme regressive del lavoro, i tagli forsennati alle pensioni». Definisce il ministro Schäuble, «il mastino della Germania e dell’euro», tutto teso a rafforzare il dominio tedesco sugli altri paesi dell’eurozona: in Grecia i tedeschi hanno seguito il detto «umiliarne uno per educarne diciotto». Mette in guardia dal nuovo totalitarismo emergente in Europa, mascherato dietro lo “stato di eccezione”, un vecchio concetto politico che indica che una parte di uno Stato, che non ne avrebbe diritto, si appropria di poteri non suoi e impone che la Costituzione venga messa da parte.
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