UNA CITTÀ n. 113 / 2003 Maggio-Giugno
Intervista a Luigi Mara realizzata da Katia Alesiano
LA FILIERA TERRIBILE L’aspettativa di vita media dell’operaio Montedison: 53 anni, contro i 73 della media nazionale. La grande concentrazione di diossina nelle vongole della laguna. Il Pvc che abbiamo usato ovunque. Il documento rivelatore dove, a fronte di sistemi di sicurezza già drammaticamente insufficienti, si parla della necessità di “liberarsi di dogmi” e abitudini sbagliate, e di “ragionevoli rischi” da correre. Intervista a Luigi Mara.
Luigi Mara, chimico e biologo di Medicina Democratica, è tra i consulenti tecnici di Medicina Democratica e di altre Parti Civili nel processo contro i dirigenti del Petrolchimico di Porto Marghera, Montedison/Eni/Enimont/ Enichem/Montefibre per la morte di oltre 220 operai e per le gravi malattie che hanno colpito altre centinaia di operai dello stesso Petrolchimico. Il processo contro i dirigenti del Petrolchimico di Porto Marghera è nato da un esposto di Medicina Democratica. Come procedete in questi casi ? Il Movimento di Lotta per la Salute Medicina Democratica opera su tutto il territorio nazionale come un ibrido sociale, espressione cioè di molteplici soggetti (lavoratori, lavoratrici, operatori della prevenzione, della sicurezza, della salute e dell’ambiente, medici e paramedici, igienisti, ingegneri, chimici, fisici, biochimici, ecologi, biologi, farmacologi, operatori del diritto e dell’informazione, ricercatori e tecnici, semplici cittadini), con diversi tipi di competenze, tra le quali importantissimo è il “sapere operaio”, perché un conto è leggere una formula chimica sulla pagina di un testo, altro è respirare quella molecola; c’è un ampio patrimonio di conoscenze non formalizzate che non sono oggetto di didattica, ma vengono tramandate all’interno dei luoghi di lavoro. Per noi quindi è fondamentale avere una persona inserita nel luogo di lavoro che raccolga le informazioni, come Gabriele Bortolozzo al Petrolchimico di Marghera. I primi lavori con Gabriele risalgono agli anni ‘80 nell’ambito di SE, Scienza Esperienza, la rivista fondata dal gruppo redazionale di Sapere dopo la conclusione di quell’esperienza nell’82. Nella rubrica “Spazio aperto” si faceva parlare l’esperienza e lì è iniziata la collaborazione con Gabriele, che era stato il primo lavoratore obbiettore ai cancerogeni sui luoghi di lavoro e che poi diventò medico scalzo di Md e responsabile di Md per Venezia e provincia. I medici scalzi sono coloro che conducono materialmente le indagini epidemiologiche e ambientali, avendo alle spalle il retroterra dell’associazione. Così Gabriele, lavoratore del Petrolchimico, da un lato ci forniva le conoscenze sul ciclo produttivo che quotidianamente viveva sulla pelle (cos’è la nocività, cos’è il rischio, cosa sono i turni di lavoro), dall’altro, attraverso un confronto permanente a volte anche aspro coi tecnici, acquisiva una serie di conoscenze di base che lo mettevano in grado di valutare con senso critico quello che gli raccontavano i tecnici della Montedison. Nel processo contro l’Enichem di Manfredonia il lavoratore invece era Antonio Lovecchio. Antonio sapeva di avere un tumore al polmone; insieme avevamo ricostruito il ciclo produttivo e la catena dei lavoratori morti; abbiamo poi fatto le denunce sia come Md che come Antonio Lovecchio, e adesso siamo arrivati al dibattimento; i vertici dell’Enichem in questo caso sono ancora incriminati. Stesso discorso per Brindisi, l’operaio si chiamava Giuseppe Caretto. Questo delle indagini “dal basso” è un procedimento che richiede tempi lunghi… Il lavoro su Porto Marghera, ad esempio, è iniziato nell’87, l’anno della strage operaia nei cantieri Mecnavi di Ravenna, e nel ‘94 abbiamo pubblicato il dossier sulla rivista. Sulla base di quel dossier abbiamo esteso l’esposto alla Procura di Venezia. All’inizio avevamo fatto dei colloqui con Gabriele e altri lavoratori del Petrolchimico per ricostruire il gruppo degli operai a rischio, gli organici di reparto di tutta la filiera del cloruro di vinile monomero (CVM). Dopo la fase orale è stato necessario reperire la documentazione per trovare i riscontri, quindi, dopo la stesura della prima rosa dei lavoratori a rischio, si sono usati tutti gli strumenti dal basso: innanzitutto la memoria, quella dei compagni di lavoro, per individuare le persone vive e quelle decedute, poi si sono messi insieme gli indirizzi, quindi si sono contattati i familiari. E’ stato fatto un lavoro porta a porta, per questo c’è voluto tanto tempo. Inoltre l’atteggiamento dei lavoratori e dei familiari è molto vario, per esempio con Antonio Lovecchio inizialmente ci furono delle “difficoltà” di comunicazione. Al congresso di Medicina Democratica del febbraio ‘95 a Perugia un radiologo dell’ospedale di San Giovanni Rotondo, il Dr. Maurizio Portaluri, aveva segnalato che dal suo reparto passavano operai dell’Enichem di Manfredonia malati di tumore; uno di questi era Lovecchio. Inizialmente il rapporto fu solo epistolare e lui si firmava semplicemente Antonio. Successivamente, quando si convinse che il nostro lavoro mirava davvero a ridare dignità alle vittime, a ricostruirne le storie individuali perché non restassero semplicemente dei numeri, allora iniziò a collaborare con determinazione, iscrivendosi a Medicina Democratica e divenendo un soggetto attivo della sezione di San Severo e di Foggia. Iniziò così un lavoro di indagine dal basso invalutabile, andando casa per casa per raccogliere informazioni sui lavoratori degli appalti, un settore che noi privilegiamo perché viene ignorato da tutti. Con Antonio siamo riusciti a presentare, come Medicina Democratica della provincia di Foggia e della regione Puglia, una prima denuncia alla Procura della Repubblica di quella città, relativa a 28 operai morti, di cui una decina avevano operato nel suo stesso reparto. In questo reparto, fra l’altro, i lavoratori erano esposti a formaldeide, una sostanza cancerogena, che entrava nel processo produttivo dell’urea in pellets e che giungeva presso il magazzino dei fertilizzanti dove operava Antonio come capoturno. Antonio Lovecchio, col tempo ha acquisito una consapevolezza profondissima; sapeva di avere poca vita e voleva far presto per evitare che altri operai facessero la sua fine. Spesso però le difficoltà maggiori si incontrano coi familiari delle vittime; li devi contattare anche dieci volte, magari sono in condizioni socio-culturali tali che la loro preoccupazione principale è di dover affrontare delle spese; poi c’è il problema del tempo e di tutta la trafila necessaria per ottenere i documenti, ad esempio le cartelle cliniche. Inoltre è un lavoro che richiede un’intelligenza collettiva per ottenere dei risultati. Il gruppo di lavoro di Porto Marghera, che faceva perno sull’invalutabile lavoro di inchiesta di Gabriele Bortolozzo, si interessò dei circa 400 operai che avevano lavorato negli impianti di produzione del cloruro e del policloruro di vinile (CVM/PVC); queste indagini condotte dal basso producono dati estremamente importanti sul piano scientifico. Nel caso di Porto Marghera, ad esempio, la nostra indagine epidemiologica/ambientale ha demistificato tutte le statistiche ufficiali italiane e straniere mettendo in evidenza, in modo lampante, che tali dati erano inattendibili e sottostimavano la realtà, tant’è che ci sono state delle frizioni anche con tecnici dell’Istituto Superiore della Sanità. I dati più importanti ottenuti sono stati quelli sull’età media dei lavoratori del Petrolchimico alla morte, per tutte le cause di tumore, che risultò essere dai 51 ai 55 anni a seconda del reparto. Questi dati statistici sono stati ottenuti dopo aver verificato, reparto per reparto, qual era la percentuale delle morti per tumore: essa oscillava dall’80% al 92%. Successivamente, il gruppo di lavoro coordinato da Gabriele Bortolozzo verificò quali erano le aspettative di vita per i maschi italiani delle stesse classi d’età e le cose cambiavano parecchio: le morti per tumore (leggi la popolazione generale italiana maschile con le stesse classi di età) si aggiravano intorno al 26,5 %. Inoltre l’attesa di vita dei maschi italiani in quel periodo era di circa 73 anni, contro i 53 di media degli operai di Porto Marghera che erano stati addetti alla filiera produttiva del CVM/PVC. Insomma, come Medicina Democratica, abbiamo dimostrato che a quei lavoratori avevano rubato almeno 20 anni di vita e, cosa più importante, che l’italiano medio non esiste, esiste il singolo individuo con la sua storia, la sua vita e le sue condizioni di lavoro, i suoi affetti famigliari e i suoi sogni. Per evidenziare quanto fosse distante la verità ufficiale dalla realtà che la comunità operaia di Porto Marghera viveva e vive sulla sua pelle, ricordo che il responsabile del servizio sanitario del Petrolchimico, tale Dott. Salvatore Lo Giudice, in un convegno di medicina del lavoro degli anni ‘80 aveva illustrato una relazione nella quale sosteneva che gli esposti al CVM avevano un rischio di mortalità standardizzato (Smr) inferiore alla restante popolazione. Naturalmente, nel registro degli esposti al rischio da CVM, non figuravano i lavoratori addetti all’insacco delle polveri di PVC dipendenti dalle imprese appaltatrici che operavano all’interno dello stesso Petrolchimico. Ricordo ancora che, per questi 292 lavoratori, si sono riscontrati valori di Smr oscillanti da 147 a 167 per cancro alla laringe o al polmone, rispetto al valore 100 atteso per la restante popolazione. Quando poi Gabriele Bortolozzo ha presentato, nel 1994, l’esposto denuncia nella duplice veste di rappresentante di Medicina Democratica di Venezia e di cittadino informato dei fatti, il Sostituto Procuratore della Repubblica Dr. Felice Casson, come da lui stesso ammesso, inizialmente non ci voleva credere, gli sembrava impossibile che nessuno avesse fatto nulla fino ad allora. Le prime consulenze assegnate dal pm Dr. Casson non solo confermarono i nostri dati, ma fecero emergere che il problema era ben più grave (si consideri anche il problema della latenza che varia da alcuni anni ai 30 anni e più, a seconda dei soggetti e del tipo di esposizione al cancerogeno subita). Sugli autoclavisti, ovvero sui lavoratori che entravano a pulire le autoclavi di polimerizzazione, si sono riscontrati valori di Smr per angiosarcoma del fegato pari a 647; in altri termini, a fronte di una persona che muore per questo tipo di tumore nella restante popolazione, in questo gruppo di lavoratori ne muoiono quasi sette. Nel dossier pubblicato da Medicina Democratica e redatto da Gabriele Bortolozzo è stata ricostruita anche la condizione di lavoro e le esposizioni al CVM e alle polveri di PVC all’interno dei reparti del Petrolchimico di Porto Marghera, constatando che laddove c’erano esposizioni di un certo tipo si trovava una certa concentrazione di ammalati o di morti. Che tipo di tumore provoca l’esposizione al cloruro di vinile? Il più noto e tipico è l’angiosarcoma del fegato, che è un po’ come il mesotelioma della pleura per l’amianto; si tratta di un tumore rarissimo, di cui ci si aspetta meno di un caso per milione di persone nella popolazione non esposta, invece, purtroppo, nella popolazione lavorativa questi indici sono ben più elevati. Ma vengono colpiti anche altri organi e, nonostante la ricerca sia molto condizionata (in quanto direttamente o indirettamente finanziata dai produttori), ci sono una serie di pubblicazioni che lo dimostrano, a partire da quelle dell’agenzia Iarc di Lione dell’Oms, che è molto autorevole nello studio dei cancerogeni, soprattutto chimici e fisici. Innanzitutto, il cancro alla laringe e ai polmoni ha colpito soprattutto gli insaccatori; poi nella popolazione lavorativa a rischio si sono riscontrati tumori al cervello, più raramente allo stomaco, ma si registrano anche linfomi, melanomi (tumori della pelle) e in altre sedi dell’organismo umano. Naturalmente la controparte ha cercato (e cercherà nel processo di appello!) di sostenere che il nesso di causalità è conclamato solo per l’angiosarcoma del fegato, con fiumi di relazioni a sostegno, ovviamente condizionate come sopra detto. Qual è la filiera del CVM e per quali produzioni si utilizza? Il CVM si può produrre con due diversi processi chimici, uno che utilizza acido cloridrico e acetilene, con catalizzatore cloruro mercurico; questo processo chimico è stato attivo a Porto Marghera fino ai primi anni ‘80. Successivamente questi impianti sono stati chiusi sia per il loro degrado impiantistico sia perché estremamente inquinanti; ricordo in particolare l’elevato consumo di catalizzatore con il conseguente inquinamento da mercurio degli scarichi di questi impianti all’atmosfera, nelle acque della Laguna nonché nel suolo e nel sottosuolo (il pm Dr. Casson, per esempio, ha individuato oltre 5 milioni di metri cubi di rifiuti industriali tossici, tumulati all’interno e all’esterno del Petrolchimico). Ricordo la pericolosità del mercurio per la catena alimentare e per l’uomo: nella baia di Minamata, in Giappone, nei primi anni ‘50, veniva scaricato questo metallo tossico con le acque reflue da un impianto di produzione di acetaldeide che utilizzava, appunto, come catalizzatore il mercurio; le conseguenze, oltre all’inquinamento della baia e della sua catena alimentare, furono centinaia di morti e migliaia di persone colpite nel sistema nervoso centrale. I primi sintomi si manifestarono in modo appariscente nei gatti che si cibavano degli scarti di pesce dell’attività di pesca locale: cominciarono a lanciare urla e poi a “suicidarsi” gettandosi in mare, quindi furono colpite le popolazioni costiere che si cibavano essenzialmente di pesce inquinato da mercurio, come la restante catena alimentare della baia. Il mercurio nell’acqua, attraverso una biotrasformazione, passa a metilmercurio, ancora più tossico e, una volta ingerito, si concentra nel sistema nervoso centrale, nel cervello, tanto che secoli fa si parlava di “cappellai pazzi” proprio perché nell’industria dei feltri si utilizzavano i sali di mercurio e, a lungo andare, gli operai addetti manifestavano una specie di pazzia. L’altro processo per la produzione di CVM, quello tuttora vigente presso il Petrolchimico di Porto Marghera, parte dall’1-2 dicloroetano, che è una sostanza cancerogena. Attraverso un processo di pirolisi si rompono le molecole formando CVM e acido cloridrico; quest’ultimo ritorna nel ciclo produttivo per ottenere nuovamente il dicloroetano (ottenuto da acido cloridrico, etilene, ossigeno dell’aria, attraverso un processo di ossiclorurazione). Il dicloroetano, viene inoltre recuperato da tale processo, dato che la resa del processo di cracking non arriva neanche al 50%. Va sottolineato che, nel corso del processo produttivo, si formano dei microinquinanti estremamente tossici, come le diossine e i furani, sui quali c’è una cappa di silenzio, ma è bene sapere che possono essere causa di alcuni tumori, come quelli ai tessuti molli. Gli inquinanti in questione vengono scaricati anch’essi all’atmosfera e con le acque reflue, e questo fatto ha determinato l’inquinamento della Laguna di Venezia con il divieto di pesca in diverse sue zone ivi compresi i canali industriali, dato che i sedimenti sono fortemente inquinati da diversi agenti tossici, microinquinanti organici e metalli (diossine, furani, PCB, mercurio, rame, arsenico ecc.). Questi agenti tossici sono stati riscontrati nelle vongole, nei cefali e in altra ittiofauna della Laguna, pertanto è palese la contaminazione della catena alimentare. Anche in questo caso, non si può fare il discorso del consumatore medio, perché tra i consumatori ci sono i bambini, gli anziani e gli ammalati. I consulenti tecnici del pm e delle parti civili hanno documentato che il consumo di un piatto di spaghetti alle vongole, anche con meno di 30 grammi di sostanza edibile, fa superare la soglia massima giornaliera stabilita dall’Oms per l’esposizione alle diossine. I consulenti dell’Enichem hanno cercato (e cercheranno) di confutare i dati. In effetti le ultime analisi eseguite dai tecnici di un istituto specializzato di Berlino, agli inizi di marzo del 2001, quando la stagione era ancora fredda, hanno rilevato dati “inferiori” a quelli riscontrati nel settembre di due anni prima, ma questo è dovuto al fatto che le diossine sono liposolubili e che le vongole nel loro metabolismo estivo accrescono il contenuto in grasso raggiungendo il top a settembre-ottobre, per poi poterlo utilizzare nella stagione invernale. Ora, se si va a ponderare il contenuto di diossina riscontrato sulla frazione di grasso contenuta nelle vongole a fine settembre 1999 e quello agli inizi di marzo 2001 (in quest’ultimo periodo tale contenuto di grasso nelle vongole è al suo minimo), i dati rilevati dai consulenti del pm sono congruenti rispetto a quelli trovati dai tecnici dell’Istituto berlinese. Se invece il contenuto di diossine viene calcolato, erroneamente, distribuendolo su tutto il peso della frazione edibile presente nelle vongole agli inizi di marzo 2001, quando questa è costituita quasi tutta da acqua, i valori risultano divergenti tra le due indagini. Questo fatto, notorio agli addetti ai lavori, il Tribunale l’ha scientemente ignorato. Inoltre il pm Dr. Casson ha fatto sequestrare dalla Guardia di Finanza innumerevoli quantità di vongole ed altro pescato nelle zone della Laguna vietate alla pesca (centinaia di verbali stanno lì a documentare questa pesca di frodo). Si tratta di fatti gravi perché quando la pesca di frodo non viene impedita, le vongole poi arrivano sulla tavola degli ignari consumatori (questa pesca di frodo avviene anche nelle zone lagunari limitrofe agli scarichi del Petrolchimico: i canali inquinati hanno acque calde e in esse i pesci e le vongole aumentano di peso). Il giro d’affari relativo al mercato delle vongole veraci nella Laguna veneziana si aggira sui 200 miliardi di vecchie lire all’anno e questo è uno degli aspetti del permanere della pesca di frodo. Torniamo alla filiera del cloruro di vinile… Ho già detto che parte dall’1-2 dicloretano e attraverso il cracking si ottiene il CVM, che a temperatura ambiente è un gas e si liquefa a -13°C, perciò, per averlo nelle autoclavi allo stato liquido, queste ultime operano alla pressione di 7-10 atmosfere. Le autoclavi, nei diversi periodi di attività degli impianti, hanno avuto un volume dai 15 ai 25m3 e, da ultimo, di 45 m3 (ora ne sono installate, presso il reparto CV24, anche due da 80 m3 e si prevede di installarne anche da 120 m3 ); sono come delle grandi “pentole” chiuse da un coperchio e hanno al loro interno un agitatore a elica. La “pentola” è incamiciata, in modo che si possa alimentare acqua calda o acqua fredda a seconda delle necessità del processo di polimerizzazione del CVM. Infine, sul fondo dell’autoclave, è installato una valvola per lo scarico della sospensione polimerica in acqua, al termine della polimerizzazione. Per ottenere il polimero si introduce dell’acqua nell’autoclave (in genere il rapporto in termini di peso è 1,1 di acqua e 0,9 di CVM), poi si aggiungono i sospendenti, gli additivi di polimerizzazione, i catalizzatori, quindi si alimenta il CVM liquido mandando l’autoclave, come anzidetto, in pressione da 7 a 10 atmosfere. Il CVM liquido alimentato, sotto agitazione della massa liquida, forma delle goccioline sospese nell’acqua, che poi, grazie all’aggiunta di un catalizzatore, si agglomerano dando luogo alle particelle di polimero PVC. Questo prodotto in sospensione acquosa si chiama slurry ed è simile a un liquido lattiginoso. Alimentando 100 chili di monomero solo 75 si convertono in polimero, 25 restano liberi e vanno allontanati dall’autoclave attraverso il cosiddetto “strippaggio” del monomero. Le particelle di polvere sono costituite da aggregati di particelle ancor più piccole e presentano una superficie a buccia d’arancia; la forma finale della particella di polimero è simile a quella di una mora. Lo slurry quindi viene filtrato e pompato nei serbatoi di stoccaggio, a loro volta posti sotto agitazione per evitare che il polimero sedimenti all’interno degli stessi. Una volta vuotata l’autoclave, sulle pareti interne, anche dopo le operazioni di lavaggio (quando queste furono introdotte nel corso degli anni, ovvero verso la metà degli anni ‘70), restano delle pellicine e delle croste che bisogna togliere per evitare la contaminazione dei successivi prodotti di polimerizzazione nonché la formazione di grumi ancor maggiori che sono controindicati per il prodotto. Per questo gli operai dovevano (e, seppur con frequenza molto inferiore, devono tuttora) entrare nelle autoclavi per la loro pulizia. Inizialmente questo avveniva quasi dopo ogni polimerizzazione. I lavoratori venivano inviati all’interno dell’autoclave indossando un casco da ciclista e inserendo una scaletta di legno nel boccaporto dell’autoclave (così è scritto anche nelle normative aziendali, predisposte per la prima volta nell’agosto del 1978); non va taciuto che questa al momento dell’ingresso dell’operatore non era completamente raffreddata; in altri termini, i tempi di pulizia andavano e vanno ridotti all’osso per ridurre del minimo la perdita di produzione. Ogni addetto alla pulizia dell’autoclave era munito di martello di legno o piombo e di scalpello di rame o di PVC stampato per evitare lo scoccare di scintille e possibili inneschi esplosivi. Quando i lavoratori staccavano la pellicina o i grumi dalla superficie interna dell’autoclave, da questi si liberavano quantità significative di monomero residuo trattenuto da tali grumi: nell’autoclave si raggiungeva una concentrazione di CVM di migliaia di ppm (parti per milione) e questi lavoratori hanno inalato il cancerogeno che li ha portati alla morte. Va pure ricordato che il lavoratore che entra dal boccaporto, che ha al massimo 50 cm di diametro, infila in questo una scaletta di legno appoggiata sul fondo, mentre all’esterno c’è un suo compagno di lavoro che tiene la corda alla quale è legato da una cintura, dato che all’interno si lavora in condizioni precarie, “sospesi”; c’è il pericolo di scivolare e di battere la testa, per questo danno all’operatore un casco da ciclista; davano anche una visiera, ma col caldo e il sudore quest’ultima si appannava subito, rendendo più difficoltoso il lavoro. I dirigenti, i consulenti tecnici Montedison nonché i loro legali hanno cercato di dire il falso, ovvero che dopo il 1974 i lavoratori non entravano più nelle autoclavi per effettuare dette operazioni di pulizia; i consulenti tecnici di Medicina Democratica e del pm hanno invece documentato, in aula, che la normativa aziendale per tali operazioni di pulizia è stata emessa per la prima volta nel luglio-ottobre 1978 e quelle descritte in quei fogli erano le reali condizioni nelle quali avveniva il lavoro degli addetti. Ma le attività “discontinue” e gravose sono anche altre: la pulizia dei serbatoi di CVM, dei filtri, degli essiccatoi, delle colonne di stripping, etc. Quindi tutta la filiera rappresenta una produzione inquinante e nociva? Sì, il problema non è limitato alle autoclavi. La torbida ad esempio, cioè la sospensione del polimero (PVC) contenente il monomero residuo, dal ‘78 viene convogliata dentro delle colonne di stripping per allontanare appunto la maggior parte di monomero residuo (CVM); qui bisogna rendere compatibile la temperatura e il tempo di permanenza della sospensione, perché il PVC ottenuto è termolabile, perciò prolungando il riscaldamento s’ingiallisce, risultando invendibile, soprattutto se il mercato lo richiede bianco. Allora l’azienda trova un compromesso, come risulta dai suoi documenti, e questo compromesso alla metà degli anni ‘90 era costituito dal contenuto di circa 10 ppm di monomero residuo nel polimero. Ovvero dopo le successive fasi di centrifugazione ed essiccamento il PVC conteneva appunto circa 10 ppm di CVM residuo. Le acque sature di cloruro di vinile, ottenute dal processo di centrifugazione della sospensione polimerica, sono state poi scaricate per molti anni senza precauzioni e sono finite in Laguna; successivamente sono state avviate in un impianto di depurazione di tipo biologico che, oltre a funzionare con molti limiti, immette in Laguna acque contenenti ancora frazioni importanti di inquinanti. Ritornando al polimero centrifugato, una specie di ricotta polverulenta, questo viene avviato a degli essiccatoi, quindi viene vagliato ottenendo una polvere, che poi prende diverse strade: in parte viene inviata nei reparti dove si producono i formulati di PVC, cioè la vipla (si ricorda che il PVC è un formulato, non è mai il polimero al 100%, e questi formulati danno luogo a manufatti rigidi e flessibili). Per esempio i pluviali dei tetti sono in PVC rigido e contengono una serie di additivi, stabilizzanti ottici, coloranti, lubrificanti di estrusione. Tra i PVC flessibili invece troviamo i contenitori per alimenti o le pellicole, dove si può arrivare ad avere una composizione di 100 parti di PVC e 100 parti di Ftalati, che conferiscono proprietà plastificanti ovvero flessibili al manufatto. Gli Ftalati sono la stessa famiglia di prodotti chimici che venivano aggiunti nei giocattoli morbidi e che ora sono stati proibiti, perché i bambini possono ingerire tali prodotti tossici quando portano il giocattolo alla bocca con le ovvie conseguenze nocive per la loro salute. Tornando però alla nostra filiera, solo dai camini degli essiccatoi di Porto Marghera tuttora l’azienda dichiara di emettere all’atmosfera, ogni anno, 7 tonnellate di CVM, 7.000 chili di sostanza cancerogena che finiscono nell’aria e nei polmoni degli abitanti a rischio. Ma le polveri disperse in aria non contengono soltanto polimero e monomero. Certo, infatti per produrre i formulati di PVC, il polimero in polvere viene lavorato all’interno di appositi “pentoloni” con agitatori detti blenders, ove si aggiungono i diversi additivi (compresi i coloranti se il prodotto finale dev’essere colorato), e si omogeneizza la massa che poi può essere venduta tal quale e quindi insaccata, oppure passare per un’altra filiera, venire estrusa dando luogo a delle specie di spaghetti che, previamente raffreddati in acqua, vengono poi tagliati in apposite taglierine dando luogo a chips o granuli che dir si voglia. Questi ultimi vengono avviati all’insacco per essere immessi sul mercato a disposizione delle industrie che stampano manufatti i più diversi, dai particolari per autovetture, ai componenti per elettrodomestici, agli imballaggi e a molteplici altri oggetti. Vi sono poi altre applicazioni dei PVC, quali i prodotti calandrati, fra l’altro, per l’ottenimento di teloni molto pesanti per autotreni, per le coperture dei campi da tennis e di altre attività. Insomma, c’è una ricerca continua da parte dell’industria per aumentare il coefficiente di penetrazione delle materie plastiche nei più diversi comparti produttivi e commerciali al fine di sostituire soprattutto i metalli e il vetro. Agli inizi degli anni ‘70 si usava il PVC per i contenitori dell’acqua minerale e il monomero residuo (CVM) dalla bottiglia passava al liquido in essa contenuto. Oggi le bottiglie sono in polietilentereftalato (PET), in questo caso ci beviamo l’acetaldeide, un prodotto anch’esso cancerogeno, ma dato che il mercato è florido e i finanziamenti pubblici per condurre ricerche in questo campo sono praticamente zero e dato che l’industria controlla tutta l’informazione, l’ignaro consumatore continua a bere in tali bottiglie. L’industria quindi sa e non dice, come è successo al Petrolchimico, lei infatti parlava di informazione e prevenzione negate. La Montedison sapeva quanto meno dal 1949 della tossicità del CVM, ovvero che questo composto chimico causava danni al fegato e alle articolazioni, malattie come la acroosteolisi, cioè la corrosione delle ossa delle mani, dei piedi e delle rotule delle ginocchia, o la cosiddetta “mano fredda”. L’azienda non ha informato, eppure c’erano dei decreti presidenziali (Dpr n. 547/1955 e Dpr n. 303/1956) che, al loro articolo 4, stabiliscono esplicitamente che il datore di lavoro deve informare i lavoratori e le lavoratrici dei rischi ai quali sono esposti e come prevenire gli stessi; quindi non è vero che, come si sostiene nella sentenza di primo grado, non c’erano leggi in materia; semmai la Montedison/Enichem/Montefibre hanno ignorato tali leggi. Così come per l’inquinamento della Laguna c’era, per esempio, una specifica legge del 1963 : “Nuove norme relative alle lagune di Venezia e Marano-Grado” e, segnatamente, il suo articolo 10 che, fra l’altro, recita : “ E’ vietato scaricare e disperdere in qualsiasi modo rifiuti o sostanze che possano inquinare le acque della laguna…” ; a tacere della legge sulla pesca tuttora vigente e promulgata ancor prima della nascita della Repubblica. Senza mai dimenticare che la sua Carta fondamentale oltre a tutelare l’ambiente, tutela la salute come diritto inviolabile della persona e bene della collettività. Da qui discende anche la prevenzione negata, perché in assenza d’informazione non può esserci prevenzione. Medicina Democratica ha documentato nelle relazioni tecniche dei suoi consulenti che una pubblicazione interna Montedison del 1960 definiva il CVM sostanza tossica. Semplicemente gli operai non ne erano stati informati e questo in spregio alle leggi; perché l’informazione, così come la sicurezza, è un obbligo del datore di lavoro. L’articolo 2087 del Codice Civile impone al datore di lavoro di aggiornare continuamente gli impianti sulla base della più moderna tecnologia e delle più recenti scoperte scientifiche al fine di tutelare il lavoratore nella sua dignità e nella sua integrità fisica, anche al di là di quanto sia espressamente previsto dalla legislazione speciale in materia. Cosa intende dicendo che la prevenzione si attua con l’impiantistica? Il problema degli impianti e del processo produttivo è uno dei punti più critici della gestione Montedison e delle successive gestioni ENI/Enimont/Enichem/Montefibre. La tecnologia disponibile al momento della costruzione a Porto Marghera degli impianti di questa filiera produttiva consentiva di realizzare impianti tecnologicamente più avanzati, e di ottenere una drastica riduzione degli impatti ambientali e sanitari, solo che tutto questo costava molto di più. Mi limiterò all’esempio delle valvole: su un impianto chimico tubi e valvole incidono sul costo globale dell’impianto per circa il 25-30%; costo che può anche raddoppiare a seconda del tipo di componenti adottati. L’azienda ha però installato delle valvole che erano già superate negli anni ‘50, valvole che si usavano negli anni ‘40, tipo Saunders, che danno perdite sia in linea, cioè dentro la tubazione, sia all’esterno. Bisogna considerare che su un impianto chimico ci sono migliaia di valvole, quindi tutti gli operai che passavano e lavoravano sull’impianto si prendevano delle gran zaffate di questo gas tossico, il CVM (Cloruro di vinile). Dalle descrizioni degli operai risulta che lì era tutto un colabrodo. Non solo, ma con comportamenti aberranti, per non aggiungere altro, l’azienda faceva effettuare la filtrazione della sospensione (torbida di PVC in acqua) sotto le autoclavi con dei filtri aperti, così questi ultimi si intasavano di meno. La torbida colava nei filtri a una temperatura di almeno 40°C, quindi è sicuro che nei luoghi di lavoro c’erano migliaia di ppm di CVM nell’aria, una situazione modello Cajenna. Poi, come Medicina Democratica, abbiamo documentato in aula che negli impianti come il CV10 o il CV11, ove si produceva il monomero (rispettivamente con il processo ad acetilene e con quello di cracking dell’1,2 dicloroetano), vi era una originaria potenzialità installata di 25-26.000 tonnellate all’anno di CVM, che è stata aumentata, in modo modulare, portandola in pochi anni a 110.000 tonnellate/anno di CVM, senza però effettuare alcun investimento finalizzato alla riduzione dell’inquinamento degli ambienti di lavoro e dell’ambiente esterno. Questi impianti sono stati concepiti, progettati, eserciti, a ciclo aperto ovvero per sversare direttamente nell’ambiente di lavoro ed esterno i reflui di processo, siano essi il CVM, le code di distillazione del CVM e del dicloroetano, i fanghi contenenti diossina, metalli e altri tossici. Tra le motivazioni della sentenza si legge che “lo stato d’inquinamento dei canali, pur sussistente, si riferisce ad epoche in cui non esistevano norme di protezione ambientale, che furono emanate e rese effettive tra la metà degli anni ‘70 e i primi anni ‘80”. Innanzitutto c’è la legge sulla protezione delle lagune di Venezia e di Grado, che risale al 1963, nonché quella di molti anni prima sulla protezione della pesca ed i Dpr del 1955 e 1956, anni nei quali sono stati costruiti gli impianti di questa filiera a Porto Marghera. Inoltre, c’erano le norme di “buona tecnica”, perché chi progetta un impianto non può pensare solo a far soldi, deve pensare anche a chi ci lavora e ci vive intorno. Dunque a Porto Marghera c’è stata una violazione totale delle norme di buona tecnica, aggravata dal dolo, perché si sapeva che il CVM era tossico e dagli anni ‘60 numerosi studi, anche quelli del professor Maltoni su lavoratori Montedison di Brindisi e Terni, avevano dimostrato che era un cancerogeno, a tacere degli studi del Prof. Viola, medico di fabbrica della Solvay di Rosignano (LI). Oltre al fatto che fino a metà degli anni ‘70 la Montedison non ha investito nulla per la sicurezza e la prevenzione, come conferma la relazione Tecneco del maggio 1974, commissionata dalla stessa Montedison per verificare il tasso d’inquinamento atmosferico determinato dagli impianti del gruppo. Tra l’altro possiamo leggere, a proposito degli impianti del reparto CV10, che “non sono state finora realizzate modifiche agli impianti aventi lo scopo di ridurre le emissioni in atmosfera”. Nel ‘75 intanto si verifica una crisi finanziaria in Montedison (Tangentopoli getterà, anni dopo, squarci di luce sulla gestione di questa società). In questo periodo, è attiva la gestione Cefis, che dura fino al luglio ‘77. Ebbene, come Medicina Democratica abbiamo prodotto un documento della Divisione Montedison Materie Plastiche (Dimp), datato 1 giugno 1977 e avente come oggetto la formulazione del budget di manutenzione per gli anni 1978-1980, in cui si definiscono quantità e criteri della manutenzione, specificando che “nel 1977 e negli anni precedenti si sono avute campagne per il risparmio, azioni di squeezing (spremitura) dei costi, imposizioni di plafond (soglie massime)” e si aggiunge che “la Direzione è stata estremamente esplicita in proposito: le iniziative tendenti alle riduzioni dei costi non possono e non devono avere un carattere saltuario o temporaneo. L’obiettivo primario... è la competitività. Per la manutenzione esso si traduce in un trend energicamente decrescente dei costi e delle perdite di produzione”. Al punto 2.3 leggiamo: “E’ piuttosto diffuso il criterio di effettuare certi lavori di manutenzione, e in particolare le grandi fermate, secondo una frequenza d’interventi stabilitasi nel tempo oppure con criteri precauzionali ‘giacché si ferma facciamo anche questi lavori, altrimenti si corrono dei rischi’. Questi sistemi possono dare una maggiore tranquillità, ma sicuramente incidono sui costi e sulle perdite di produzione”. Al punto 2.4 si sostiene invece la necessità di “correre dei ragionevoli rischi” oltre al fatto, sottolineato al punto 2.6, che “i responsabili di produzione e manutenzione devono cambiare mentalità (...) sentirsi inseriti in un grande complesso. Ognuno di noi paga un premio a una società assicuratrice per cautelarsi dei rischi derivanti dall’uso dell’automobile che, considerati nell’ambito individuale, possono essere gravissimi. Nell’insieme di una comunità peraltro gli assicuratori prosperano, perché la somma dei danni è sempre inferiore a quella dei premi pagati dagli individui. Analogamente rischi di affidabilità che potrebbero essere giudicati non accettabili se considerati nell’ambito di un singolo impianto, diventano accettabili se sono frutto di una mentalità estesa a un intero Stabilimento o a una Divisione (insieme di stabilimenti)”. Nello stesso documento si sostiene la necessità di promuovere un’opera di “distruzione di dogmi” (intendendo per dogmi i criteri precauzionali) e si definisce che “l’obiettivo è non manutenere e, dovendo assicurare la capacità produttiva oggi e domani, se non si può farne a meno, manutenere il più raramente possibile”. A me sembra nazismo. Ricapitolando, abbiamo visto impianti nati già obsoleti, ciononostante potenziati senza investimento per ridurre gli impatti ambientale e sanitario per gli esposti e per le popolazioni circostanti; in più si è teorizzato e si è praticato il principio del non manutenere gli impianti, la cui necessità cresce invece col tempo di vita dell’impianto in attività. Inoltre per ridurre i costi sono stati installati dei componenti inadeguati rispetto alla protezione delle persone e dell’ambiente; prima ho menzionato la valvola Saunders, che, nell’anno 2000, costava circa 300.000 lire, mentre la valvola Tuflin, a tenuta tripla, quindi a tenuta garantita, costava 3.000.000 vecchie lire. Quando compare il documento del 1 giugno 1977 la strategia di non manutenere si riferisce ad impianti di questa filiera produttiva già attivi da 20 anni, perciò ampiamente ammortizzati almeno dalla metà degli anni ‘60. La cosa quindi è ancora più aberrante e inaccettabile per una società civile. Adesso sono in marcia impianti che hanno più di 30 anni; i cosiddetti impianti “nuovi” infatti sono entrati in funzione nel ‘71, costruiti secondo una concezione superata, hanno scaricato negli anni centinaia e centinaia di tonnellate di monomero nell’atmosfera, nonché altri macro e microinquinanti. Senza contare i cosiddetti “incidenti”, uno per tutti quello accaduto l’8 giugno del 1999, per il quale è in corso un processo penale. Allora ci fu una fuoruscita di circa 4 tonnellate di CVM, trasportate e disperse dal vento fino all’abitato di Malcontenta, a 2 chilometri e mezzo dallo stabilimento EVC di Porto Marghera. Per questo inquinamento ambientale, il 22 giugno dello stesso anno, fu emessa un’ordinanza dal Ministro dell’Ambiente che ha determinato la fermata immediata delle attività produttive in considerazione del fatto che uno studio dell’Istituto Superiore della Sanità aveva evidenziato come “il rischio cancerogeno per una singola esposizione accidentale può essere considerato (...) apprezzabile per il cloruro di vinile” e tenendo conto che il rapporto di sicurezza Montedison del 1996 mostrava che “lo scarico in atmosfera, a seguito del rilascio delle valvole di sicurezza, viene ritenuto un’ordinaria misura di emergenza” affermando che “lo stato di efficienza e di affidabilità degli impianti ai fini di una loro sicura gestione, si sta sempre più fortemente avvicinando ad un punto di criticità estrema”. Lei ha definito ingiusta la sentenza di primo grado. La sentenza di primo grado (impugnata con atto di appello dal pm, da Medicina Democratica e da altri parti civili), copia pagine intere della relazione del professor Pasquon del Politecnico di Milano, che è uno dei consulenti della Montedison, copiando così pari pari anche alcuni suoi errori macroscopici. Mi limito a segnalarne uno: il Prof. Pasquon parla dei limiti di esposizione al cloruro di vinile stabiliti dall’Osha, un’agenzia governativa americana, nel 1964. Peccato che l’Osha sia stata costituita nel 1970 (i consulenti tecnici di Medicina Democratica e del PM hanno prodotto nell’atto di appello anche il decreto federale di costituzione dell’Osha del 1970). |