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“Capovolgere” la facoltà di medicina? L’eredità di Giulio A. Maccacaro
Di Angelo Stefanini
L’insegnamento medico rimane in gran parte concentrato sulla biologia del corpo e legato a un approccio deduttivo basato su postulati di normalità anatomica e fisiologia di un uomo astratto e immutevole che nella realtà non esiste. Un modello di questo tipo fa sì che i determinanti sociali e strutturali delle malattie possano tacitamente essere ignorati. In questo modo lo sguardo dello studente non si spingerà lungo la catena eziologica che dal malato arriva, a monte, fino alle “cause delle cause” della sua condizione all’interno del sistema sociale, svelandone le responsabilità, ma si fermerà ben prima di doverlo mettere in discussione.
La formazione dei medici e dei professionisti della salute, così come avviene oggi in molte università italiane, continua a sfornare personale inadeguato a rispondere ai bisogni della popolazione, rimpinguando le fila di un esercito di professionisti sempre più indifesi di fronte alle lusinghe della medicina commerciale e al profondo conflitto di interessi di cui è pervasa. Un riflesso preoccupante di questa tendenza è l’esaurimento del ruolo sociale e politico, di “avvocato dei poveri” (diceva Rudolf Virchow) della professione medica.
In realtà il corso di laurea in medicina e chirurgia dei nostri giorni non si discosta molto da quello descritto negli anni 70 dallo studioso-militante Massimo Gaglio[1], già professore di medicina interna all’Università di Catania:“un insegnamento libresco e veterinario, un insegnamento spezzettato e ripetitivo che rifiuta ostinatamente di diventare critico con se stesso, che è avulso dal mondo circostante e dai suoi problemi: in breve, un insegnamento che nulla insegna sulla stessa medicina che lo studente dovrà praticare dopo la laurea”.
Negli stessi anni Giulio Alfredo Maccacaro (1924-1977), direttore dell’Istituto di Statistica medica e biometria all’università di Milano, fondatore delle riviste Sapere ed Epidemiologia e Prevenzione e del movimento per il diritto alla salute Medicina Democratica, auspicava una Facoltà di medicina “capovolta” affinché la formazione potesse cominciare “dalla realtà e non dalla teoria, dalla società viva e non dallo studio di un cadavere”[2]. La sua eredità si sta rivelando sempre più preziosa per accompagnare il crescente movimento interno all’università, e alla società intera, che chiede con forza un cambiamento nella formazione dei professionisti della salute.
L’ipotesi di lavoro di Maccacaro, declinata nella collana editoriale Medicina e Potere (editore Feltrinelli) da lui diretta, era che “la medicina, come la scienza, è un modo del potere”, che la scienza è una dimensione della storia e come tale “comprensibile e leggibile solo nell’ottica della dialettica dei poteri”.[3] Secondo Maccacaro, all’interno dello scontro sociale tra capitale e lavoro “alla medicina è affidato il compito di risolvere, nella razionalità scientifica, questa contraddizione del modo di produzione capitalista, che da una parte consuma e spegne la forza lavoro ma dall’altra ne ha bisogno per continuare ad alimentare se stesso.”[4]
Come continuiamo a osservare ai giorni nostri, nonostante il dimostrato impatto che i determinanti sociali hanno sulla salute della popolazione,[5] l’insegnamento medico rimane in gran parte concentrato sulla biologia del corpo e legato a un approccio deduttivo basato su postulati di normalità anatomica e fisiologia di un uomo astratto e immutevole che nella realtà non esiste. Una visione di questo genere lascia ai margini del percorso formativo proprio quelle discipline che più sarebbero in grado di analizzare il contesto sociale, come epidemiologia, sociologia, economia della salute (e non soltanto dei sistemi sanitari), ecologia umana, antropologia, medicina del lavoro.[6]
In effetti, la distinzione nel curriculum degli studi tra materie scientifiche fondamentali, (hard) di forte impatto accademico, e materie umanistiche (soft), non pienamente degne di appartenere all’olimpo scientifico, non è casuale. Secondo Maccacaro, è il frutto di scelte precise che tendono a occultare agli occhi del futuro medico, da una parte, la realtà sociale in cui la salute è creata e distrutta e, dall’altra parte, il luogo dove il professionista stesso andrà a esercitare e le strutture di potere che in esso operano. Un modello di questo tipo fa sì che i determinanti sociali e strutturali delle malattie possono tacitamente essere ignorati.
Così la tubercolosi non nasce dalla malnutrizione e dall’insalubrità e sovraffollamento abitativo ma semplicemente del micobatterio di Koch; il cancro non proviene da un modo di produzione che socializza il rischio e privatizza il profitto ma da una specifica sostanza cancerogena o da uno stile di vita malsano di cui il soggetto è l’unico responsabile. In questo modo lo sguardo dello studente non si spingerà lungo la catena eziologica che dal malato arriva, a monte, fino alle “cause delle cause” della sua condizione all’interno del sistema sociale, svelandone le responsabilità, ma si fermerà ben prima di doverlo mettere in discussione.[7]
Ruolo della formazione
I medici formati in questa cornice concettuale finiscono quindi per concorrere all’opera di “occultamento sistematico di ciò che nell’organizzazione del lavoro e della vita sociale produce sofferenza e malattia e della conseguente frattura tra individuo e storia.”[8] Il senso dell’affermazione di Rudolf Virchow che “la politica è nient’altro che medicina su larga scala” risiede allora essenzialmente nel ruolo di normalizzazione e di legittimazione che la medicina svolge all’interno dell’organizzazione sociale, in quello che lo stesso Maccacaro chiamava la “medicalizzazione della politica”.
La formazione del medico appare in larga parte funzionale a questo disegno che pone il sapere medico in una posizione di compromissione con la logica che domina il modo di produzione e l’organizzazione della società. In tale senso l’università funzionerebbe come una “fabbrica di consenzienti”[9] dove vengono fornite informazioni, anzi nozioni, avulse dal contesto della medicina reale che inevitabilmente ha sempre più luogo nel territorio, fuori dall’ospedale. Di conseguenza tali nozioni risultano inutilizzabili e servono soprattutto a spegnere il senso critico e ad alienare il futuro medico alla accettazione passiva dei dati “tecnici” forniti dai docenti e del falso mito della neutralità della scienza “pura” spacciata come indiscutibile obiettività. Un insegnamento quindi che produce un medico completamente estraneo alla realtà sociale in cui andrà a operare, ma perfettamente omologato alla logica di una corporazione orientata al profitto e assolutamente funzionale alla classe dominante. “Sembra in sostanza che l’insegnamento medico, pre- e post-laurea, sia davvero capace di produrre di tutto: dal propagandista farmaceutico al cardiologo… Ma un medico di base capace di inserirsi utilmente in una comunità urbana o rurale, di averne cura, di intenderne i problemi di malattia e difenderne il diritto alla salute, non c’è corso di laurea o scuola di specialità che lo produca. Non sarebbe un medico, ma qualcosa di più; e questo qualcosa di più non glielo si può concedere di essere.”[10]
Il curriculum “nascosto”, quello che opera in modo invisibile a livello delle interazioni interpersonali e dei messaggi impliciti disseminati ovunque oltre il contesto didattico formale, continua ad avere due effetti: da una parte infonde negli studenti una ben chiara gerarchia di valori,[11] dall’altra parte ammicca alla convenienza di astenersi da critiche sociali o istituzionali. Ciò che inquieta è quanta poca politicizzazione e coscienza sociale basti a chiunque nel mondo medico (anche durante il periodo di formazione) per essere estromesso dal sistema professionale mainstream. Temi di grande attualità e valenza sociale come le disuguaglianze in salute o i problemi di accessibilità e inclusione dei soggetti più vulnerabili sono di solito emarginati nella didattica in un corso facoltativo (o ADE – attività didattica elettiva) di scarso peso accademico. Tutto ciò non solo rafforza la percezione che le questioni di giustizia sociale non siano che una semplice appendice al core curriculum, ma neppure riesce a coinvolgere studenti e tirocinanti in modo efficace.
“Che fare”
Se non si accetta il principio che il compito del medico è in se’ politico, nel senso di mettere in discussione strutture e situazioni potenzialmente patogene, si riduce la medicina a ben poco, a semplice lavoro di riparazione dei guasti: ruolo assai ben accetto alla classe dominante che tenderà sempre più a ricompensare il medico “consenziente” con lauti guadagni e carriera sicura.A questa medicina, sosteneva Maccacaro, va contrapposta un’altra medicina, quella che la stessa comunità costruirà come strumento della propria emancipazione, del proprio empowerment. Del resto, la realtà sociale che l’istituzione accademica cerca in tutti i modi di tenere lontana dallo sguardo degli studenti arriva comunque alle porte dell’accademia dall’esterno, attraverso l’oscenità delle disuguaglianze economiche, il clamore dei movimenti per il diritto alla salute e gli scandali dei conflitti di interessi con l’industria.
Se, come sosteneva l’educatore brasiliano Paulo Freire, oppressore e oppresso non possono che liberarsi insieme,[12] allo stesso modo non sono tanto gli intellettuali o i docenti che hanno il compito di liberare la medicina dal potere. Gli obiettivi di cambiamento della formazione medica, per Maccacaro, non sono soltanto obiettivi degli studenti o dei docenti ma delle masse popolari e dei lavoratori. Il ruolo dell’università non è quindi di sostituirsi alla comunità ma di assecondarne il processo di appropriazione delle conoscenze necessarie a costruire gli strumenti di autocontrollo e autogestione della propria salute. “Per questo non basta più il controllo sanitario: occorre il controllo sociale.”[13]
Non si tratta allora di approfondire o possedere più capillarmente conoscenze scientifiche già acquisite, ma di costruire possibilità di pratiche sociali alternative nel campo della medicina e della promozione della salute in cui la soggettività delle comunità finalmente trovi lo spazio adeguato alla propria espressione. Questo salto di qualità comporta mutamenti di portata tale che nel nuovo assetto sociale la scienza non sarà più la stessa sotto un comando diverso ma sarà una scienza riformata, centrata sull’uomo: “Il giorno in cui i medici intenderanno la profonda politicità e la potenzialità liberatoria del loro lavoro, la medicina del capitale avrà cessato di esistere.”[14]
In questa prospettiva, il compito del medico-scienziato che fa una scelta di classe non è di rifiutare la “scienza borghese”, ma di “studiare seriamente, usando tutte le armi della scienza, i problemi del cambio del sistema sociale”… salvando la scienza “cambiandone l’appropriazione”.[15] Ciò significa, ad esempio, rendere esplicite le contraddizioni insite nel lavoro scientifico. Una di queste risiede nell’eccessiva importanza riposta nei modelli matematici o comunque nelle metodologie quantitative nello studio della salute e nelle loro presunte caratteristiche di oggettività e neutralità. Tali metodologie sono nate per lo studio delle cose, o insiemi di cose, nell’ambito delle scienze naturali, non delle popolazioni. Queste ultime, sostiene Maccacaro, non sono assimilabili semplicemente a un insieme di persone, quanto piuttosto a un sistema di relazioni che corrono tra gli elementi che lo compongono. Applicare a tale sistema i metodi statistici del campionamento e dell’inferenza vuol dire convertire “dei sistemi di uomini in sistemi di cose”.[16]
Al fine di formare gli studenti a una professionalità socialmente consapevole, gli insegnanti, oltre a chiedersi se e come sia possibile “insegnare la giustizia sociale” nel curriculum delle professioni della salute, devono essere criticamente consci del proprio ruolo e del proprio potere. Il curriculum nascosto opera anche attraverso le relazioni gerarchiche profondamente asimmetriche che esistono tra docenti e discenti. Un passo dell’insegnante verso il superamento di questa condizione può essere anche semplicemente modellarsi il ruolo di chi è capace di dire “non lo so”, o di consultare un libro di testo con un tirocinante – o con un tirocinante e un paziente. Può significare abbandonare una lezione scrupolosamente costruita con powerpoint e fare emergere i bisogni di un’aula piena di studenti e accettare positivamente le loro critiche e proposte. Può significare consentire agli studenti e agli specializzanti di dare un contributo reale alla costruzione del curriculum o al percorso di un tirocinio.
La giustizia sociale può essere insegnata, quindi, non soltanto introducendo questioni sociali nel curriculum, ma soprattutto cominciando a viverla e ad applicarla nel microcosmo dell’interazione diretta tra docenti e studenti, responsabilizzando gli studenti e facilitando un ambiente in cui si può riflettere criticamente su questioni mediche, sul ruolo sociale e politico della professione sanitaria, su come capacitare i futuri professionisti ad analizzare in modo critico il ruolo che la struttura sociale ha nella determinazione della salute e nella sua disuguale distribuzione all’interno di una popolazione. Il tutto finalizzato non più a “fare un laureato portatore di un titolo senza competenza, ma un operatore preparato e pronto a essere efficace nella realtà sociale che gli si affida”.[17]
Angelo Stefanini, Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale (CSI), DIMEC, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Bibliografia
- Gaglio M. Medicina e Profitto. Nuove Edizioni Operaie, 1976, p. 88.
- Maccacaro GA. Una facoltà di medicina capovolta. Intervista pubblicata su Tempo Medico, novembre 1971, ristampata in G.A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare, Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 377-382, p. 377.
- Maccacaro GA. L’uso di classe della medicina. In Per una medicina da rinnovare, Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 406-434, p. 409.
- Ibid. p.410.
- Determinanti Sociali di Salute. Le conclusioni della Conferenza di Rio.
- Maccacaro GA 1979, op. cit., p. 377.
- Clementi ML. L’impegno di Giulio A. Maccacaro per una nuova medicina. Medicina Democratica, 1997, p. 76.
- Ongaro Basaglia F. Salute/malattia. Le parole della medicina. Einaudi, Torino, 1982, pp. 5-6.
- Bert G. Il medico immaginario e il malato per forza. Feltrinelli, Milano, 1974, p. 13.
- Maccacaro GA, 1979, op. cit., p. 378-9.
- AA.VV. Medici senza camice. Pazienti senza pigiama. Socioanalisi narrativa dell’istruzione medica, Sensibili alle Foglie, 2013.
- Freire P. La Pedagogia degli oppressi. EGA- Edizioni Gruppo Abele, 2011.
- Citato in: Clementi ML, 1997, op. cit., p. 122.
- Maccacaro GA. Lettera al Presidente dell’Ordine. In Polack JC. La medicina del capitale. Feltrinelli, Milano, 1972, ristampato in Maccacaro GA, 1979, op.cit., p. 141.
- Maccacaro GA, 1979, op. cit., p. 176.
- Maccacaro GA. Prefazione all’edizione italiana di Peter Armitage. Statistica medica. Metodi statistici per la ricerca in medicina. Feltrinelli, Milano 1975, pp. 5-6.
- Maccacaro GA, 1979, op. cit., p. 377.
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