Siamo tutti materani, il voto dei sudici
- Laura Marchetti, 19.04.2016
.
Sembra invertirsi il rapporto di subalternità politica e psicologica che faceva dire a Salvemini, con
ironia, che l’Italia si divide in nordici e sudici. Nel senso che l’esito del referendum mostra
l’esistenza di una questione settentrionale se la civilissima Bolzano se ne frega di far proseguire le
estrazioni di gas e petrolio a tempo indeterminato (17% di affluenza)
o se l’altrettanto civilissima
Milano, reduce ancora dai fasti cibari dell’Expo, vota così blandamente (31%), superando di poco
Ravenna (28%) che evidentemente vuole conservare le sue trivelle nonostante l’acqua rossa, i pesci
morti spiaggiati e l’abbassamento progressivo delle coste.
L’esito del referendum mostra altresì una ripulitura dei sudici, un disinquinamento anche mentale, e
indica una possibile uscita dalla questione meridionale se Matera dice un no così netto alle trivelle
(52%), come Potenza (49%) o Lecce 46%), o Brindisi ( 40%), o Taranto (42%), fino alla stessa Bari
(42%).
In queste città della Basilicata (50,4%) e della Puglia (46,52%) è maturata infatti, in questi anni , una coscienza ecologica, frutto di vere lotte: lotte collettive, di intere comunità, contro le estrazioni della Total di Tempa Rossa, contro il deposito di scorie nucleari a Scanzano, contro il gasdotto della Trans Adriatic Pipeline che, in un groviglio di interessi, offenderà le più belle coste di Santa Foca, contro il mostro produttore di tumori dell’Ilva o il carbone altrettanto nefasto della centrale dellEnel.
Sono state lotte scaturite dall’impegno e dal dolore, dalla sofferenza cruda: di operai ammalati, di
padri e madri di bambini non nati, di paesaggi devastati, dell’identità culturale minacciata. Esse
hanno dato respiro ai flussi elettorali, facendo partecipare pezzi ampi di popolazione, incitando le
prese di posizione di artisti e giovani e comitati e anche, non ultimo, dei governatori delle due
regioni che hanno scelto di farsi voce dei loro territori e non della corruzione di politici e
imprenditori.
Mao Valpiana scriveva oggi, sui social, Siamo tutti materani. Lo dico anche io (con la stessa passione con cui in anni passati ho pensato siamo tutti no Tav), ammirata da questa città che negli anni cinquanta era additata come vergogna nazionale dagli sviluppisti e che oggi, non avendo rinnegato i sassi, le grotte, l’acqua, la pietra, i lavori artigianali e agricoli, le conoscenze tradizionali, è diventata un modello di città sostenibile e democratica.
Capitale della Basilicata, la regione con i più grandi giacimenti di petrolio non solo del Paese ma di
tutta l’Europa occidentale, Matera è oggi veramente diventata Capitale della Cultura per il 2019
perché ci ha detto chiaramente che la corsa all’oro nero è una scelta sbagliata che, a fronte di
numeri dell’occupazione irrisori, minaccia irreversibilmente le preziose risorse idriche, naturali,
economiche, storiche e memoriali.
Appunto le risorse culturali, perché la cultura non è solo nei libri, nei quadri o nelle invenzioni
solitarie, ma la cultura come si legge nelle motivazioni per cui è diventata Patrimonio Unesco e
bene comune dell’umanità – è nel rapporto armonico che, anche in condizioni di povertà, i popoli
riescono a stabilire con la Natura, con la propria storia, con l’insieme dei viventi e della biodiversità.
Perché la cultura è innanzitutto, come dissero i costituenti che ne affidarono la protezione alla
Repubblica, il Paesaggio , il primo bene comune, il fondamento della patria, in quanto contenitore
dell’intelligenza, della manualità, dell’affettività, dell’immaginazione della sua gente.
Sì anche dell’immaginazione, valore da non trivellare e che era nella posta in gioco di questo referendum. Perché chi ha votato e fatto votare con convinzione, almeno qui in Puglia, lo ha fatto per dire no ai petrolieri, allo svuotamento della democrazia, alla deriva dell’informazione, ma lo ha fatto soprattutto perché si è fatto incantare dal mare (lo slogan regionale era infatti: Noi Si-amo il mare):
il mare dei bagni d’infanzia, delle cozze mangiate nelle sciale popolari, degli sbarchi sempre
accoglienti, e dell’orizzonte che deve essere aperto, sgombro, senza trivelle, se vuoi naufragare con
la poesia o pensare l’infinito con la filosofia.
Ed è perciò dall’immaginazione che viene una lezione alla nostra politica, perché non bastano i
discorsi razionali, utilitaristici, per la difesa del mare ma ci vuole anche un immaginario del mare,
una adesione sentimentale, un farsi mare. Ce lo insegnò Ivan Illich, il grande ecologista, in un libro
delizioso (H2O e le acque dell’oblio), in cui ricordava che quando la municipalità di Dallas gli chiese di fare proposte avanzate sul depuratore cittadino in costruzione, lui rispose, lasciando tutti stupiti, dobbiamo prima di tutto farci acqua”, farci Mare.
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Le ragioni del quorum mancato sulle trivelle
- Marco Bersani, 19.04.2016
. Un’analisi del voto referendario del 17 aprile richiede una valutazione complessa per le numerose
variabili da considerare. Tredici milioni di persone che votano Si in un referendum che si è fatto di
tutto per boicottare, non sono poche, soprattutto in un paese dove la disaffezione al voto – frutto
della caduta verticale di fiducia verso la politica istituzionale è diventata di ampia portata e quasi
endemica.
Il boicottaggio del voto è stato tanto manifesto, quanto evidenti sono i poteri forti che sono scesi in
campo per il mantenimento dello statu quo. Il presidente del consiglio, dapprima con la definizione
della data – nessun accorpamento con le amministrative e indicazione della primissima data utile per abbreviare il più possibile la campagna referendaria poi con la discesa in campo aperto per
l’astensione, si è dimostrato un pasdaran della nuova idea di democrazia autoritaria e plebiscitaria
che propone al paese. I grandi mass media, dapprima con il totale silenzio sul quesito, poi con la denigrazione dello stesso, hanno fatto ampiamente la loro parte.
A tutto questo va aggiunto l’evidente obsolescenza della norma che disciplina i referendum, che mantiene un quorum (50% più 1 degli aventi diritto al voto) da missione quasi impossibile e che facilita la strumentalizzazione della disaffezione elettorale per far fallire ogni esperimento di democrazia diretta.
Questo quadro oggettivo non esime, tuttavia, dal valutare il voto del 17 aprile come una sconfitta.
Perché, se sono realtà tutti gli impedimenti sopra descritti, è altrettanto vero che, se si decide di
sfidare le politiche governative utilizzando lo strumento referendario, si è consapevoli dell’entità
della sfida e occorre di conseguenza prendere atto dell’esito.
Ecco perché vale forse la pena provare a fare una riflessione più ampia in merito a quali condizioni
rendano praticabile la sfida e a quali invece ne pregiudichino in partenza l’esito. La prima non può che riguardare la frammentazione sociale che oltre venti anni di liberismo e la crisi sistemica in atto hanno prodotto nel paese: oggi le persone che hanno una visione d’insieme dei problemi sono una minoranza, mentre per la gran parte della popolazione l’isolamento e l’atomizzazione hanno agito in profondità, al punto da renderle disponibili alla mobilitazione solo di fronte ad un attacco diretto ed esplicito alle proprie condizioni di vita.
Se Eugenio Scalfari può scrivere sulla Repubblica che chi non vive nelle regioni direttamente interessate dalle trivellazioni è bene che se ne disinteressi, è perché ha chiara -e la utilizza pro-Renzi- esattamente questa dimensione di frammentazione sociale.
E’ questa realtà a dimostrare, come oggi una prima condizione sine qua non la sfida referendaria diviene impossibile è che l’argomento da sottoporre al voto degli italiani debba o riguardare un tema che incide direttamente sulla vita di tutte e tutti o, in alternativa, diversi temi dirimenti che, nella loro pluralità, mobilitino ciascuno una fetta di popolazione direttamente interessata.
Il primo caso lo si è visto con la straordinaria esperienza del movimento per l’acqua, non a caso
l’unico referendum degli ultimi venti anni ad aver raggiunto il quorum; il secondo caso, ancora da
verificare nella sua efficacia, è attualmente in corso con la campagna di raccolta firme, avviata da
due settimane, sui referendum sociali.
A mio avviso, c’è una seconda condizione irrinunciabile per poter mettere in campo la sfida
referendaria: la raccolta delle firme fra i cittadini. È l’unico antidoto possibile alla disinformazione
dei mass media e consente, nell’anno precedente al voto, una sorta di alfabetizzazione di massa e un
processo di motivazione sociale che divengono dirimenti nella successiva mobilitazione per la
partecipazione al voto.
Sono entrambe condizioni assenti nel referendum del 17 aprile e, che, a mio avviso, ne hanno
determinato l’impossibilità strutturale di un esito positivo. Tredici milioni di persone hanno
comunque deciso di scendere in campo e di disobbedire all’indifferenza richiesta dal governo e dai
poteri forti di questo paese. A mio avviso si parte da lì.
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