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(il manifesto, 12 aprile 2016)

MOBY PRINCE, LA PISTA USA


12 apr 2016 — Manlio Dinucci


«Mayday Mayday, Moby Prince, siamo in collisione, prendiamo fuoco! Ci
serve aiuto!»: questo il drammatico messaggio trasmesso venticinque
anni fa, alle 22:25:27 del 10 aprile 1991, dal traghetto Moby Prince,
entrato in collisione, nella rada del porto di Livorno, con la
petroliera Agip Abruzzo.

Richiesta di aiuto inascoltata: muoiono in 140, dopo aver atteso per
ore invano i soccorsi. Richiesta di giustizia inascoltata: da
venticinque anni, i familiari chiedono invano la verità. Dopo tre
inchieste e due processi.

Eppure essa emerge prepotentemente dai fatti. Quella sera nella rada
di Livorno c’è un intenso traffico di navi militari e militarizzate
degli Stati uniti, che riportano alla base Usa di Camp Darby
(limitrofa al porto) parte delle armi usate nella prima guerra del
Golfo.

Ci sono anche altre misteriose navi. La Gallant II (nome in codice
Theresa), nave militarizzata Usa che, subito dopo l’incidente, lascia
precipitosamente la rada di Livorno. La 21 Oktoobar II della società
Shifco, la cui flotta, donata dalla Cooperazione italiana alla Somalia
ufficialmente per la pesca, viene usata per trasportare armi Usa e
rifiuti tossici anche radioattivi in Somalia e per rifornire di armi
la Croazia in guerra contro la Jugoslavia.

Per aver trovato le prove di tale traffico, la giornalista Ilaria Alpi
e il suo operatore Miran Hrovatin vengono assassinati nel 1994 a
Mogadiscio in un agguato organizzato dalla Cia con l’aiuto di Gladio e
servizi segreti italiani.

Con tutta probabilità, la sera del 10 aprile, è in corso nella rada di
Livorno il trasbordo di armi Usa che, invece di rientrare a Camp
Darby, vengono segretamente inviate in Somalia, Croazia e altre zone,
non esclusi depositi di Gladio in Italia (vedi blog di Luigi Grimaldi
sul Moby Prince). Quando avviene la collisione, chi dirige
l’operazione – sicuramente il comando Usa di Camp Darby – cerca subito
di cancellare qualsiasi prova.

Ciò spiega una serie di «punti oscuri»: il segnale del Moby Prince, ad
appena 2 miglia dal porto, che giunge fortemente disturbato; il
silenzio di Livorno Radio, il gestore pubblico delle
telecomunicazioni, che non chiama il Moby Prince; il comandante del
porto Sergio Albanese, «impegnato in altre comunicazioni radio», che
non guida i soccorsi e viene subito dopo promosso ammiraglio per i
suoi meriti; la mancanza (o meglio sparizione) di tracciati radar e
immagini satellitari, in particolare sulla posizione dell’Agip
Abruzzo, appena arrivata a Livorno dall’Egitto stranamente in tempo
record (4,5 giorni invece di 14); le manomissioni sul traghetto sotto
sequestro, dove spariscono strumenti essenziali alle indagini. Così da
far apparire quello del Moby Prince un banale incidente, anche per
responsabilità del comandante.

I familiari delle vittime sono riusciti ora a ottenere l’istituzione
di una commissione parlamentare d’inchiesta, non solo per dare
giustizia ai loro cari, ma per «chiudere un capitolo indegno della
storia italiana».

Capitolo che resterà aperto se la commissione limiterà come al solito
l’inchiesta all’esterno di Camp Darby, la base Usa al centro della
strage del Moby Prince.

La stessa inquisita dai giudici Casson e Mastelloni nell’inchiesta
sull’organizzazione golpista «Gladio». Una delle basi Usa/Nato che –
scrive Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte
di Cassazione – fornirono gli esplosivi per le stragi, da Piazza
Fontana a Capaci e Via d’Amelio. Basi in cui «si riunivano terroristi
neri, ufficiali della Nato, mafiosi, uomini politici italiani e
massoni, alla vigilia di attentati».

Il May Day del Moby Prince è il May Day della nostra democrazia.